Sesso, Internet e bugie. Confessione di un pedofilo
Posted On mercoledì 12 agosto 2009 at alle mercoledì, agosto 12, 2009 by Roberta Lerici "Mi sentivo attratto dalle figlie dei miei amici" Confessione di un pedofilo Giustificazione e consapevolezza: "Era più forte di me" "Mi sentivo attratto dalle figlie dei miei amici" . Ve lo giuro, erano carezze senza malizia». Erano nelle parti intime. «E’ vero sì, ma è accaduto tutto senza malizia». E le foto? E quelle immagini che ha trovato sua moglie, quelle con le bimbe nude? «Le tenevo in casa, sì. A mia moglie ho raccontanto quello che mi stava capitando». Dietro e oltre la cronaca, dietro e oltre le quinte, dietro e più in là dell’indignazione degli altri e dei nascondigli della propria anima, prima e dopo un processo. Antonio (o qualsiasi altro nome possa avere l’uomo davanti alle scrivanie della questura) ha parlato con la polizia, con il vicequestore Gian Maria Sertorio, con i pm, ha taciuto davanti alla toga del gip Cristiano Trevisan. Il «mostro» sociale, immaginifico, angosciante emblema palpabile della pedofilia ha avuto in questa indagine un passo spaventato e poi diverso: confidenza, bisogno di uscire dalla gabbia. I verbali sono, per la prima volta, al di là di ogni orrore, le «confessioni di un pedofilo», perché si incomincino a capire brandelli di Internet, di stralci giudiziari, di scoop, di punizioni oltre le sbarre, di pentimenti, di mente persa nel desiderio davanti a scorci di pelle che portano via la testa. «Confessioni di un pedofilo»: fanno dolore pure a chi per mestiere è avvezzo anche a questi romanzi. Non fosse altro che per la minuzia della deposizione, Antonio ha il merito di aprire la saracinesca blindata su bambini e bambine. La storia incomincia con fotografie scattate su una spiaggia del Sud. E va avanti con una madre che chiede alla figlia, sul bidet, che problemi ci sono. La bimba parla di quando la tocca «il papà di...». Il crescendo, visto da quella creatura e da altre, riportate negli atti, arriva a botta e risposta che lasciano sospesa ogni emozione: «Noi vedevamo sempre tutto», «Solo alle femmine, a parte...», «non è una sensazione proprio bella quando ti fanno queste cose ... alla patatina». Sono pagine e pagine di dettaglio, dove i quattro minori, seppur turbati, si sciolgono davanti alla pacatezza, alla non insistenza di chi li ascolta con delicatezza, passo dopo passo, di carezza in carezza. «Solo quello?». E una bimba: «No. Anche alla patatina». Ma la maschera da svelare, l’uomo che era «mostro» e non riesce a reggere il ruolo del mostro, deve ancora aprirsi. Il pedofilo che si racconta dentro anziché cercare scuse storiche, sgomento perfino lui degli abiti che gli sono stati tolti e di quelli che la gente più che la giustizia gli ha cucito addosso, si rivela: «Tutto è incominciato nel 1997, al termine di un viaggio di lavoro in Argentina. Navigavo su Internet e mi sono accorto di essere attratto dalle foto di ragazze giovanissime. Le rivedevo un po’ in mia moglie, che cercavo di rendere sempre più giovane, le chiedevo di radersi il pube e ritoccavo le sue fotografie». Il crescendo. Lei, la donna che lo assecondava sperando in un gioco soltanto fra loro, trova in casa foto di bimbe nude. Antonio: «Che cosa potevo fare? Le ho raccontato tutto quello che stava capitando». Continua ad aprirsi: a partire dai dati dei siti dove va a cercare immagini scaricando corpi nudi senza però lanciarsi nelle spericolate operazioni di scambio tra «amatori» del genere. Il virtuale. Ma poi? I corpi sono lì vicini. E’ il crescendo, quello che porta oltre il confine, che - anche riconoscendo disturbi di personalità - la psichiatria forense non coglie come «scusante», perché rimane coscienza di bene e male. «Dopo qualche tempo cominciammo a frequentare coppie di amici, avevano anche figlie piccole. Ammetto, sì, ho provato un interesse nei loro confronti, mi resi conto che mi sentivo una forma di gusto, di appagamento, nello stare insieme e vederle, quando capitava, nude». Passo per passo, scivolata della mente per pattinaggio della coscienza, Antonio, uno di noi, uno con la famiglia, con la stima di chi ha intorno, si svela: «Eravamo in una vacanza. Erano due le bimbe, una di dieci e la sua amica di nove. Facevo carezze senza malizia. Anche sui seni. Però non ho mai usato violenza». Quella fisica, verrebbe da obiettare. Eppure, a suo modo, dice una verità. E’ l’insinuarsi della fiducia. E dell’alibi: «Credetemi, anche una delle bimbe mi ha chiesto di accarezzarla, però le ho detto di no». Si confondono le acque, eppure è preciso, con l’amica del figlio che, guarda caso, quando giocano insieme al dottore, ha dolori tra le labbra della bocca e tra le gambe. Si contiene nel racconto: «Mi sono limitato a farle un paio di carezze». E’ un’altalena di alibi e dolore e seppur tardiva voglia di liberarsi. Chiede «aiuto», «terapie», «uno psicologo», purché sia aiuto. Dovrà scardinarlo di certo da un’altalena lo psicologo, perché chiede aiuto e insieme si preoccupa delle tracce di bimbi e bimbe nude, tracce forse perse fuori dal suo nido, tracce sue e non di Internet e delle sue chiavi. Chi parla a verbale è un prigioniero, certo. Ma il suo racconto, la lucidità, l’onestà di confessione dicono anche che la «chiave» non l’aveva mai buttata fuori dalla gabbia. C. LAUGERI e M. NEIROTTI La Stampa 8/2/2008 (7:34)IL VERBALE SHOCK.